Scaria
il santuario dei Carloni

di Luca Frigerio

Doveva essere il loro testamento, nel paese che li aveva visti nascere e tante volte partire, verso le corti sfavillanti d’Europa. E dove infine riposeranno, l’uno accanto all’altro, nel piccolo cimitero in faccia ai monti. La chiesa è quella di Santa Maria, il borgo è quello di Scaria, in Val d’Intelvi. Loro sono i fratelli Carloni, Diego Francesco e Carlo Innocenzo, artisti. Forse era un sogno che avevano accarezzato fin da bambini, quando neppure adolescenti furono assorbiti nella bottega paterna a impastare gessi e macinare colori: lasciare nella “loro” chiesa un segno della loro arte. E man mano che gli anni passavano e la fama cresceva, dovette ingigantirsi anche l’aspirazione iniziale: ora, al soglio della vecchiaia, l’intero santuario comasco avrebbe dovuto portare la loro firma, rinascendo a loro immagine e somiglianza.

Diego era nato nel 1674, dodici anni prima di Carlo. Come ben si addice a un fratello maggiore, era stato fedele e rispettoso dell’arte del padre Giovan Battista, coadiuvandolo prima come scultore e stuccatore, poi ricalcandone le orme e riproponendone i moduli. Carlo invece si era ritagliato una sua maggiore autonomia creativa, abbandonando la patriarcale attività plasticatoria per percorrere le vie della pittura. Ma probabilmente il genitore non ebbe a dolersene, anzi: era una riprova del genio artistico della famiglia.

Non sappiamo se i due fratelli riuscirono davvero a lavorare gomito a gomito nel cantiere di Scaria. Forse sì, almeno per certi periodi, considerando che i lavori in Santa Maria si dipanarono per diversi anni, o perfino per qualche decennio. Diego Francesco, naturalmente, si occupò degli stucchi, introducendo nel modesto edificio intelvese l’esuberanza che aveva entusiasmato le teste coronate d’Oltralpe. Carlo Innocenzo, invece, provvide agli affreschi, attingendo a una tavolozza che si era via via affinata con la maturità. Il risultato, in ogni caso, è mirabilmente unitario, nelle forme e nei colori, nelle proporzioni e negli equilibri. Un inno corale al barocco più estremo. Qualcuno storcerà il naso, ne siamo certi. Perchè anche chi scrive, di norma e da sempre, predilige l’austera, massiccia sobrietà di una cappella romanica rispetto agli arzigogoli di certi barocchismi. Eppure il capolavoro dei fratelli Carloni induce inevitabilmente al rispetto e all’ammirazione. Si percepisce di trovarsi di fronte a un vertice, a un’impresa compiuta e finita, come se più oltre non si potesse andare, come se dopo tutto ciò non vi fosse più altro da dire e da fare. E infatti la chiesa di Santa Maria di Scaria, con i suoi stucchi, con le sue pitture, è come il sugello di una tradizione, la fine di un’epoca. Dopo, tutto sarà diverso.

Il programma iconografico è interamente mariano, sia nell’illustrazione della vita della Vergine, sia nella simbologia. A far da cornice, nel vero senso della parola, un trionfo di putti e di angeli, cortigiani celesti dai volti paffuti e dagli sguardi sorridenti.

Il Carloni più grande, anagraficamente, s’ingegna in un miracolo di leggerezza, snellendo le figure e facendole letteralmente librare nello spazio raccolto della chiesa. Ogni elemento per Diego diventa pretesto decorativo, anche la più nascosta sporgenza, anche la meno accessibile modanatura. E non si rimpiange la nobiltà dei marmi, qui per lo più assenti. Perchè gli stucchi di Scaria vibrano e pulsano, bianchi, sì, ma di toni continuamente cangianti con il mutare del chiarore del giorno, con il riverbero delle candele, e perfino sotto la luce delle più anonime lampadine.

Le Madonne di Carlo, parimenti, hanno i tratti gioviali di aristocratiche contadine, apparentemente rivestite di semplici modi, in realtà immancabilmente nobili e dignitose, come si conviene. I gesti sono teatrali, eppure misurati. Le pose auliche, ma non caricaturali. Un mondo ispirato da Tiepolo, e sopravvissuto al maestro veneziano, ma non ancora estenuato. Sanno, i fratelli Carloni, che la loro visione dell’arte sta ormani tramontando, che i gusti prepotentemente vanno cambiando, e forse comprensibilmente se ne dolgono. Eppure caparbiamente resistono, perchè questo, a Scaria, è il loro piccolo, sicuro, inattaccabile rifugio.

La decorazione del catino absidale continua con le scene della Passione del diacono spagnolo Vincenzo, le più antiche conosciute in Italia. E con una serie di elementi simbolici che vanno dal pavone, emblema dell'immortalità, alla fenice, richiamo pressochè universale all'idea della rinascita, e quindi della resurrezione cristiana. Anche in questi, che possono sembrare dettagli, come nelle greche o nei vari motivi ornamentali, la qualità pittorica si conferma a livelli altissimi, sbalorditivi. Più semplice e narrativo, invece, è il carattere degli affreschi che ricoprivano le pareti delle navate, con le storie illustrate a meridione di sante figure femminili (Giuditta e Margherita), con le gesta a settentrione di eroi maschili della fede (Sansone e Cristoforo). E diciamo “ricoprivano” perché, purtroppo, di questi cicli intrisi di memorie carolinge ben poco è oggi leggibile. A fianco della basilica sorge il battistero, così dappresso da farne un unico corpo. La valenza architettonica è, se possibile, ancora maggiore. Uno spazio ampio, consapevolmente sovradimensionato, incentrato sul fonte battesimale, ma svettante verso l'alto. La pianta quadrilobata si ripercuote all'esterno in un gioco complesso di pieni e di vuoti, di forme concave e convesse. A lungo si è dibattuto sulla datazione della struttura, che tuttavia denuncia in ogni parte la grandeur creativa di Ariberto e dei suoi campioni: nella decorazione sobria e tuttavia raffinata; nell'impianto massicio come una fortezza; nel desiderio di sorprendere, i contemporanei come i posteri, inventando un edificio assolutamente nuovo, ma partendo da schemi antichi e palatini... Il vero problema, semmai, è se questo battistero sia stato eretto contemporaneamente alla chiesa o qualche anno più tardi, quando il nostro già impugnava il pastorale come uno scettro, trattando con principi e imperatori, difendendo i privilegi ambrosiani, schiacciando l'eresia, commissionando altre, meravigliose opere d'arte.

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NOTIZIE UTILI

Per raggiungere Scaria da Milano, occorre percorrere l'autostrada dei laghi fino all'ultima uscita per l'Italia e prendere la statale Regina (indicazione Menaggio) fino ad Argegno e quindi seguire le indicazioni per Lanzo e Val d'Intelvi.

Da Como c'é un servizio pullman che parte dalla stazione FS. Dalla Svizzera è possibile raggiungere Lanzo percorrendo la Val Mara.